Il bambino viveva in un quartiere di periferia. Oggi, al posto dei campetti di terra, di fabbriche dismesse, di capanne rabberciate, di roulottes abitate da zingari (così li chiamavano), ci sono strade, palazzi, piazze, negozi, ma allora non c'era nulla, solo due palazzoni, pionieri di un'urbanizzazione ancora di là da venire.
A scuola era il più bravo, 'il piccolo genio' lo chiamavano le maestre, ma questo lo danneggiava. I suoi compagni di scuola temevano il confronto, i genitori di più. L'invidia è un sentimento troppo adulto per allignare in bambini piccoli. Per Narciso poi c'era ancora tempo.
Un giorno il padre gli avrebbe raccontato che i genitori di alcuni ragazzi più grandi di lui non avevano accettato la decisione della professoressa di inglese di una scuola privata di inserirlo con i loro figli nel corso riservato ai più avanzati. Era un'offesa all'intelligenza dei loro figli: un bambino ad un corso avanzato? Ma andiamo! Non sarà mica uno scherzo? La professoressa (inflessibile come la sua madre patria Inghilterra) aveva tenuto duro ma il bambino non aveva mai capito perché quei ragazzi tenessero un atteggiamento ostile verso di lui. Da grande avrebbe magari capito. Da grande. Ma allora era un bambino, solo un bambino.
Intanto quella porta restava chiusa ed il pomeriggio cominciava a far posto alla sera. Dietro la porta c'erano i suoi amici di strada, gli unici coetanei di quel nuovo quartiere. I primi amici, quelli che non ti scordi mai. La sua incrollabile incertezza cominciò a traballare. Abbassò lo sguardo pensando che a quel punto non l'avrebbero fatto più entrare, non lo avrebbero fatto giocare a Rischiatutto (o a chissà cos'altro, il suo amico aveva una stanza talmente piena di giochi). Non osava suonare ma accettare la realtà era dura: era stato escluso, non lo avevano voluto. Punto.
Solo più tardi avrebbe capito. 'Il genio' aveva, come dire, un difetto: era troppo vivace. A scuola non riusciva a stare fermo e alle mamme dei suoi amici non piaceva proprio: faceva troppo chiasso, troppo rumore, non sapeva stare al posto suo. Quel giorno quella porta non si aprì. Con il cuore in gola, deluso e amareggiato se ne andò a casa, incontro alla certa punizione."
Per un giorno quel bambino era stato 'pinguino'. Ma chi, almeno una volta nella vita, non lo è stato? La nostra umanità ci rende al tempo stesso unici ma diversi da tutti gli altri e, più spesso di quanto non si creda, scontiamo questa diversità. Siamo talmente presi dalla nostra 'normale' umanità che non ci rendiamo conto che, in realtà, siamo tutti, troppo spesso inconsapevolmente, pinguini. Alcuni lo sono più degli altri, ma solo perché la natura li ha privati della possibilità di nascondersi, come facciamo noi, dietro una maschera di apparente 'normalità'. Solo loro sono in grado di ricordarcelo, di rimandarci continuamente l'immagine del pinguino che è in noi; un'immagine nella quale non ci vogliamo riconoscere, che rifiutiamo, che allontaniamo etichettando l'altro a volte come diverso, talaltra come malato. Ma 'diversità' non è dire lablapapà invece di barbapapà, babba invece di teletubbies, avere occhi di gatto o orecchie a sventola, esprimersi con più difficoltà, se comunque ci si capisce e ci si riconosce come persone che abitano lo stesso pianeta.
La diversità non è nelle cose, ma nella testa degli uomini, è un'idea in nome della quale ci si può condannare a vivere nella povertà morale e nell'aridità dei sentimenti e sul cui altare troppo spesso si condannano gli altri a vivere l'inferno.
Noi non abbiamo mai avuto, né mai potremmo avere, la pretesa di cambiare la mentalità della gente. Ma possiamo, questo sì, fornire una testimonianza di vita. Molti di noi prima di diventare genitori, parenti o amici di persone affette da sindrome di Down, nemmeno immaginavano di essere già pinguini.
Con questo concorso non abbiamo voluto vedere con quali occhi gli altri vedono i nostri pinguini. Lo sapevamo già da noi; troppo spesso ci tocca leggerlo negli occhi della gente, nella loro stolta indifferenza, nel loro cinico evitamento, nella loro umana compassione, nelle loro inutili paure. Volevamo piuttosto spingere i pinguini, che non sanno di esserlo, ad avere il coraggio di guardarsi allo specchio, confrontandosi con i pinguini senza maschera, ponendoli con più attenzione al centro delle loro considerazioni, sollecitandoli a guardarli con gli occhi del cuore, perché capissero quanto ricca sia la loro umanità, quanto costruita e finta possa essere la loro diversità, quanto invece ci possano insegnare. Il pregiudizio genera paura ed è figlio dell'ignoranza. Volevamo fornire l'occasione del contatto, per guardare, per comprendere e conoscere; perché conoscere vuol dire aprirsi ed aprire le porte all'altro, gettare un ponte che renda reciproca la comunicazione da e verso le altre isole, vuol dire apprezzare il contenuto, non il contenitore.
Ci siamo riusciti? Direi di sì o almeno osiamo sperarlo e crederci. Il nostro auspicio piuttosto è che alle parole seguano i fatti, che alla scoperta dell'altro seguano comportamenti coerenti, che l'occasione fornita con questo concorso non resti tale ma che, piuttosto, sia seme che dia buoni frutti, che apra la porta e faccia entrare il pinguino seduto sulle scale.
Con i lavori più significativi pubblicheremo un libro che possa aiutare a trasmettere il messaggio, a diffondere il seme, ma che sia anche di aiuto ai tanti, tanti genitori di pinguini che continuano ancora a vedere i propri figli e non si accorgono di avere la maschera sul viso.
Presidente di Pianetadown